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9 Novembre 2022 - 4.641 visualizzazioni
DIFFAMAZIONE SUI SOCIAL NETWORK

Alcune Corti ritenevano di poter escludere il reato di diffamazione, in quanto veniva a mancare uno degli elementi essenziali della comunicazione con più persone, requisito sostenuto dal sopra citato articolo 595 del Codice Penale. Il social network veniva infatti visto come un ambiente virtualmente chiuso e ristretto di comunicazione e interazione fra poche persone selezionate, rispetto alla moltitudine che popola il mondo della Rete.

La Cassazione, con la sentenza n. 12761 del 2014 ha ricondotto le ipotesi di diffamazione a mezzo social network, entro i confini della diffamazione aggravata perpetrata mediante l'utilizzo del mezzo di pubblicità. Chiarendo che la pubblicazione di una frase diffamatoria su un profilo Facebook rende la stessa accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e ciò anche con riguardo alle notizie riservate agli “amici”.

I presupposti per la diffamazione attraverso il mezzo Facebook sono [14]:

precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose
comunicazione con più persone alla luce del carattere pubblico dello spazio virtuale e la possibile sua incontrollata diffusione
coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo
Una conferma dell'applicazione dei suddetti criteri di individuazione è rintracciabile nel caso di un maresciallo della Guardia di Finanza di San Miniato (Pisa), che ha etichettato un collega, che lo ha sostituito nell'incarico lavorativo, con epiteti poco gentili, pubblicando sul social network Facebook, tra i dati personali del proprio profilo, la frase “…attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato..."[15], alla quale seguivano una serie di insulti e minacce. Il maresciallo, condannato in primo grado a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata, è stato in un secondo momento assolto dalla Corte militare d'appello di Roma, in quanto le offese sul social network Facebook erano rivolte ad anonimi, dal momento che risultava impossibile riuscire a raggiungere il diretto interessato. Il procuratore generale militare ha quindi impugnato la sentenza di secondo grado in Cassazione. Ricorso che la Suprema Corte ha ritenuto fondato, disponendo un nuovo processo d'appello. La Cassazione ha confermato la «condanna a tre mesi di reclusione militare». Gli elementi decisivi per la scelta della Corte di Cassazione sono stati l'individuazione del destinatario della diffamazione, anche se quest'ultima limitata ad «un numero ristretto di persone, quali i militari della Compagnia» e l'utilizzo di «uno strumento comunicativo di generalizzata e spiccata attitudine ricettiva» rappresentato da Facebook. Il tutto è racchiuso all'interno della sentenza n. 49066 del 2015 della Corte di Cassazione. [15]
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